domenica 12 settembre 2010

A tutti coloro, Financial times compreso, che anelano ad avere partiti con leader carismatici: 'ntu 'u culu 'ai lider carismatici

A tutti gli indecisi, criticoni, delusi e benaltristi consiglio di leggere questo articolo che copio/incollo dal sito Termometro politico 
 
Si susseguono, nei blog e sui giornali, e tra molti commentatori, le lamentele per il "silenzio", e le "divisioni" del Pd, tanto più rilevanti in quanto il momento politico appare incandescente. Le parole e le proposte di Bersani sono giudicate, quasi unanimemente, poco efficaci, non all'altezza, e lo stesso vale per gli interventi degli altri leader, che anzi paiono accentuare il senso comune di un partito diviso e quasi tramortito.
Perché la comunicazione del Pd appare così inefficace? Non è certo mancanza di quantità. Il segretario e i dirigenti del Pd, esattamente come quelli degli altri partiti, inondano le agenzie quotidianamente di interventi, commenti, polemiche e così via. C'è sicuramente il problema, grave e irrisolto, dello squilibrio informativo, che esalta dichiarazioni spesso surreali e scomposte degli esponenti del centrodestra (Bossi, ad esempio), e mette la museruola a quelle del centrosinistra. È anche vero però che l'insoddisfazione sembra più marcata tra i militanti del Pd, rispetto a Di Pietro e Vendola che, al contrario, sono comunemente giudicati molto più "convincenti" ed "efficaci".

Senza voler sminuire una certa mancanza di chiarezza di idee dei dirigenti del Pd e il peso di divisioni politiche ormai quasi generazionali (Veltroni-D'Alema), è possibile che il motivo profondo di questa "afasia" comunicativa sia un altro. Legato alla stessa forma partito che il Pd si è dato. Si valuterà allora se e in che modo le modalità di comunicazione di un gruppo politico siano strettamente legate alla natura di quel gruppo politico stesso.
Ben pochi tengono presente che il Pd è un partito molto singolare nel panorama politico italiano. Di fatto è l'unico partito di stampo "europeo", cioè fondato sull'adesione non a un'ideologia, ma a principi generali, su una leadership legittimata dal voto democratico dei militanti, sulla dialettica interna come valore statutario. Non diversamente da quanto avviene nei vari Labour, Spd ecc., ma anche nei partiti conservatori moderati.

Questa struttura, comune a quasi tutti i Paesi europei e politicamente evoluti, è invece "eccentrica" in Italia, dove, per motivi storico-culturali, si è sempre imposto il partito "ideologico", o quello "carismatico". Erano ideologici Dc e Pci, partiti fondati su una visione del mondo totalizzante. In particolare il Pci intendeva la partecipazione dei militanti non come un contributo alle decisioni del partito, quanto uno strumento di diffusione e propaganda di queste decisioni, che dovevano essere sempre accettate, o comunque non messe apertamente in discussione. Altri partiti invece erano chiaramente carismatici (il Pri di La Malfa, il Psdi di Saragat, il Msi di Almirante, e così via).

Questi due modelli di partito, nella Seconda Repubblica, hanno definitivamente trionfato, segnando in qualche modo la profonda diversità italiana dal modello europeo. Il modello carismatico è l'essenza stessa del Pdl berlusconiano, ma domina anche nei partiti medio piccoli, (l'Idv di Di Pietro, l'Udc di Casini, la Sel di Vendola, ma anche il movimento di Fini e quello di Grillo). In questi casi, il partito si identifica sostanzialmente con il leader, e in esso trova la sua unità. La parola del leader è legge, ed è l'unica voce autorizzata: gli altri dirigenti sono dei sottoposti, il loro ruolo è solo quello di ripetere la verità proclamata dal leader nelle occasioni più diverse, e nelle forme più opportune. Il dissenso, anche se il partito ha uno statuto apparentemente democratico, nei fatti non è ammesso. Tant'è vero che un forte dissidio di linea politica si trasforma velocemente in una rottura totale, così come è avvenuto nel Pdl. Le differenziazioni, i distinguo, le critiche, sono vissute, dall'interno e all'esterno, come dimostrazioni di una congiura in atto per rovesciare il leader, come indizi di tradimento imminente. Anche per questo nella cronaca politica trionfa il "retroscena", in cui si tenta di interpretare politicamente frasi dette a mezza bocca, presenze o assenze a riunioni, umori del leader e così via.

La Lega, invece, è un partito "ideologico", in cui i militanti contano sì, ma non decidono. Il loro ruolo è "occupare" il territorio, fare propaganda, mostrare con la loro azioni e il loro comportamento le magnifiche sorti e progressive del loro partito, ma vengono tenuti lontano dalla responsabilità delle scelte. Anzi spesso si trovano nella situazione imbarazzante di dover giustificare prese di posizioni bizzarre e spesso contraddittorie, sempre ostentando fiducia ai vertici in nome di un più alto "ideale". In più, si aggiunge l'elemento carismatico della leadership di Bossi.

È evidente che il Pd è un partito che non corrisponde né al primo né al secondo modello. La scelta del leader attraverso le primarie, e il fatto che il ruolo sia contendibile, toglie ogni forza carismatica al segretario (tranne quella che possa dimostrare per virtù personali), e il fatto che i militanti siano chiamati a scelte e decisioni continue, anche sul piano locale, che siano organizzati in correnti, o in gruppi di opinione, rende impossibile trattarli come pura e semplice "macchina di propaganda". Il modello partito del Pd, che definiremo "dialettico", in Europa è vincente (tranne nelle forze populiste e di ultra destra), ma in Italia resta un unicum.

Proprio da questo nascono i problemi di comunicazione del Pd. In Italia, il modello prevalente, per la quasi totalità dei mezzi di informazione, è quello del leader che parla dal pulpito, e dei militanti elettori che assorbono la linea. Il Pd invece ha una pluralità di voci a livello dirigenziale, una base con forte e radicato senso critico, una linea politica che è necessariamente una mediazione tra varie sensibilità. Tutto ciò ne indebolisce fatalmente la capacità di mandare all'esterno un messaggio forte e univoco. Ma il vero punto critico è che il modello "dialettico" di partito è considerato debole da molti degli stessi simpatizzanti. Le lamentele più comuni sono infatti riconducibili proprio alla intima non accettazione della natura del partito, e al fascino dei modelli alternativi, vissuti come vincenti. Da qui nascono le lamentele perché il partito "non parla chiaro", "ha una politica incomprensibile", che mostrano un desiderio, neanche troppo velato, di poter contare su parole d'ordine forti non da discutere, ma solo da diffondere. Le critiche invece sulla carenza di leadership, la stigmatizzazione delle continue divisioni, cela invece il desiderio di poter aderire a un movimento "carismatico", in cui non sia indispensabile dover mettere in gioco ogni volta i ruoli di comando.

Intendiamoci, anche un partito "dialettico", come il Pd, sarebbe utile un leader carismatico, alla Obama (forgiatosi peraltro in un lungo e faticoso scontro politico), e parole d'ordine ben più forti delle attuali. Ma è ovvio che il Pd, se non vuole tradire se stesso e le ragioni della sua nascita, dovrà conservare con cura questa sua caratteristica che lo rende "singolare" nel panorama politico italiano, a costo anche di apparire spesso (oltre i suoi demeriti), diviso, abulico, timido. È vero che i partiti "carismatici" e ideologici" hanno tutti i vantaggi nel campo della comunicazione, visto che non devono passare attraverso mediazioni, critiche dal basso, dure lotte per la leadership. Ma pagano questo vantaggio con la loro intrinseca debolezza: scomparso il leader, o affievolito il collante ideologico, è a rischio la sopravvivenza del partito stesso. Il Pd invece naviga in acque più agitate, ma il suo naviglio dovrebbe essere fatto di un legno più resistente.

Resta la difficoltà del rapporto con i militanti, attratti, inconsciamente, dai modelli di comunicazione, e quindi di partito, avversari. Sarà difficile risolvere questo problema se dirigenti e simpatizzanti non capiranno che il Pd deve proporre anche un modo diverso di militare, o di aderire, a una forza politica. Non si tratta più di aspettare una "linea", e di diffonderla con feste e volantini. Non si tratta nemmeno di andare ogni tanto a votare per le primarie. Un partito "dialettico" implica che ognuno dei suoi aderenti, o simpatizzanti, si "faccia partito", nei luoghi di lavoro, nelle associazioni, nelle relazioni sociali, non attendendo che qualcuno gli dica cosa deve fare, ma agendo in prima persona, accollandosi in piena la responsabilità "politica" del proprio agire, aiutando a costruire, compatibilmente con quel poco che gli consente il proprio ruolo, o il proprio tempo, una società più giusta a partire dal quotidiano. Non militanti, quindi, ma tutti dirigenti politici, tutti in grado di dettare "una linea" nel proprio ambito di azione. Solo in questo modo la voce di un leader Pd potrà diventare solo la sintesi di tante voci che già parlano nella società italiana. E suonerà molto più forte e viva.

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